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Chiesa_lato_laterale_esterno_320x211Nel corso della II guerra mondiale dal 17 al 25 febbraio 1945 Sermide fu bombardata pesantemente dagli aerei alleati che causarono la morte di 31 persone e la distruzione del centro storico. Nel 66° anniversario, ricordiamo quei giorni drammatici attraverso la testimonianza di uno dei tanti sermidesi che vissero quella terribile esperienza.

 

- testimonianza di Rino Malavasi da "Un paese in guerra" -

"Il 20 febbraio 1945, verso le 21,30, degli aerei sorvolavano Sermide senza sganciare delle bombe. Ad un tratto tutto il paese e la zona circostante erano illuminati a giorno da tanti “bengala” sganciati dagli aerei che, poi, si allontanarono. (Dopo la guerra era circolata la voce che quel lancio di “bengala” era stato un avvertimento perché la popolazione si allontanasse da Sermide).

Il mattino del 21 febbraio 1945, alle 8,45 suonò l'allarme. Abitavo al “casermòn, longa la fossa” e, come era successo altre volte, uscivo di casa per vedere le formazioni di aerei che passavano sopra Sermide, provenienti da Bologna, per andare a bombardare la Germania.

Ad un tratto avendo visto luccicare qualcosa, dissi alle persone vicine: “mi pare che abbiano sganciato delle bombe”. Qualche attimo dopo un boato assordante e lo spostamento d'aria mi sbatteva violentemente contro la porta di casa. Era la prima ondata, seguita da altre sette. Una ogni sei minuti circa.

Mio fratello Alfio ed io cercavamo di raggiungere la chiesa per ripararci nel campanile che era ritenuto un rifugio abbastanza sicuro assieme alla torre civica. Non avevamo fatto in tempo per l'arrivo della seconda ondata. Stesi a terra, sentivamo passarci sopra le teste le macerie delle case colpite. Finalmente riuscimmo a raggiungere la chiesa (più precisamente il campanile).

Ci sembrava di sentirci più al sicuro sotto le volte del campanile. Continuava ad arrivare gente e sentivo qualcuno gridare che bisognava andare su per la scala per fare posto, ma nessuno voleva spostarsi.

Arrivò un'altra ondata. Le bombe scoppiavano dappertutto. I tremendi boati “spaccavano” il cuore. La gente gridava, si stringeva in quello che sembrava l'ultimo abbraccio della paura, piangeva. Si sperava sempre che fosse l'ultima ondata. Con la settima, una bomba cadde all'esterno ma vicina al campanile. Per lo spostamento le porte si spalancavano con fragore e andarono distrutte. Per fortuna non c'erano feriti.

La bomba aveva aperto un varco nel fianco della chiesa distruggendo l'altare di Sant'Antonio. Il polverone aveva invaso il campanile, ormai privo di porte ed era impossibile respirare. Qualcuno si era messo a gridare di salire in fretta la scala del campanile. Sospinti da quelli che erano sotto Franco Popi, mio fratello Alfio ed io, eravamo arrivati ormai all'altezza dell'orologio. Il campanile oscillava come fosse una pianta in balia del vento; si era aperta una crepa larga circa venti centimetri dalla quale si poteva vedere la disastrosa situazione esterna. Noi eravamo muti e abbracciati nel terrore. (Ancora oggi, sessant'anni dopo, è visibile la riparazione eseguita alla crepa).

Cominciavo a sentire gli scoppi sempre più lontani. Ad un certo punto tutti volevano uscire dal campanile ma, all'interno della chiesa, c'era ancora un polverone tale che impediva di vedere. Man mano che si dissolveva, appariva la devastazione dell'interno del tempio. Tutto era bianco di polvere. Anche alcune signore anziane che, fin dall'inizio del bombardamento, si erano inginocchiate davanti all'altare maggiore e lì erano rimaste per tutto il tempo. Sembravano statue di marmo e per lo choc non riuscivano a reagire.

Ma il fatto che aveva fatto gridare al miracolo, era aver scoperto che una grossa bomba aveva perforato il tetto della chiesa, era precipitata sul pavimento ed era rotolata fin davanti al confessionale di Don Guido Lui senza scoppiare. Oltre a distruggere il tempio, avrebbe causato la morte di tutti quelli che si trovavano nel campanile.

Usciti in fretta dalla chiesa, mio fratello ed io, vedevamo uno spettacolo ancora peggiore: la via Indipendenza quasi distrutta; del caffè di mia zia Iside e Tito Bardini nulla era rimasto. Scappando verso l'argine, avevamo visto pezzi del chiosco della Romilda Baccarini volati sul campo sportivo.

Avevamo raggiunto la famiglia Zerbinati in golena e la stalla era piena di gente. Eravamo preoccupati non avendo notizie di nostra madre, la sorella Bruna ed il fratello Berto. Soltanto nel pomeriggio Berto ci raggiungeva, poi le altre con dei vestiti e delle coperte ma niente cibo. Eravamo digiuni da molte ore. Mia madre era decisa a non tornare a casa. Per l'argine, andando verso Caposotto, eravamo arrivati al forno di “Paulin” Colombari al quale mia madre chiedeva del pane senza avere, però, la tessera annonaria. Il fornaio non ci pensò e ci consegnò quasi due chili di pane."